Il castello abbandonato di Maddaloni

Martina Patone
4 min readMay 9, 2022

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Arriviamo a Maddaloni verso l’ora di pranzo. C’è tanto sole, odore di cucinato e in giro poche persone, magari intente a comprare i dolci per pranzo della domenica. Quando torneremo qualche ora più tardi, Maddaloni sarà una città fantasma. Il bar dove avevamo preso un café appena arrivati sarà chiuso, le saracinesche abbassate. Così anche gli altri bar e i negozi del centro. Un silenzio ingombrante, accompagnato soltanto dal calore afoso di un primo pomeriggio di maggio. In Campania il caldo arriva presto.

Beviamo il nostro caffè e ci incamminiamo. Un bambino va su e giù per la via con la sua bicicletta; una signora butta a terra e pesta il bicchiere di plastica da dove poco prima aveva bevuto dell’acqua; un ragazzo in abito scuro dall’aria dozzinale interrompe la sua telefonata per indicarci gentilmente la strada. Dopo aver percorso via Sambuco, prendiamo via Collina Felice, dove ci sono le scalette che portano in via Castello. Da qui i ruderi del castello sono vicini e ben visibili di fronte a noi. A sinistra il panorama è imponente. La linea che divide il rosso dei tetti di Maddaloni e l’azzurro del cielo è interrotta solo dal Vesuvio che ci ricorda dove siamo. Oltrepassate le tre croci probabilmente usate per la rievocazione della morte dei tre uomini crocifissi sul Golgota, il sentiero diventa ghiaioso e sale su per il castello. Un po’ condizionati dal racconto di chi ci era già stato, che definiva il sentiero appena visibile, decidiamo che quello che saliva era troppo battuto per essere quello giusto. Attraversiamo cosi la collina per dritto, su un sentiero non esistente che però noi ci convinciamo di vedere, verso la cinta muraria, proprio dove c’è una fessura. La oltrepassiamo. Siamo con quasi metà del nostro corpo dentro la macchia mediterranea, tra rovi e piccole frane di terra e per risalire la collina ci aggrappiamo a rami di alberi, sperando che quei rami non siano pieni di spine. Raggiunto un burrone di rovi, capiamo di aver sbagliato strada. A questo punto abbiamo qualche graffio sulle braccia e caviglie, qualche spina nella mano e le mie belle scarpine gialle sono ricoperte di terra.

Ritrovato il sentiero iniziale, quello che ci sembrava troppo facile, l’ingresso al castello diventa facilmente raggiungibile. Entriamo. La prima impressione è di trovarsi in un posto senza tempo. Ma in realtà i segni del tempo sono ben evidenti nel processo di declino e disgregazione dell’edificio. Dall’atrio diroccato si entra nelle sale al pian terreno. Da quelle enormi fessure che una volta erano finestre si può vedere tutto il casertano. Nonostante l’edificio sia ormai lasciato a se stesso, infestato da erbacce e ricoperto di graffiti, gli affreschi in quelle sale sono ancora ben visibili. I colori ancora vispi. Non so a che periodo risalgono, ma probabilmente a prima del 1445, data in cui la città passa in mano ai Carafa che decidono di costruire un nuovo palazzo, avviando l’abbandono del castello. Non saliamo al piano superiore. Magari crolla.

C’è eccitazione. Per qualcosa che potrebbe succedere. Quel silenzio, che ora ci fa stare tranquilli, potrebbe essere interrotto da un momento all’altro, e chissà da cosa. C’è nostalgia. È triste accettare il deteriorarsi di qualcosa che in passato doveva essere grandioso e dispiace pure che non si è voluta preservare quella grandiosità. Il senso di abbandono che si percepisce fa male. E poi si vede la bellezza che trapela dalle mura del castello di Maddaloni. Perché nonostante abbandonato e lasciato a stesso, il castello resiste, accetta di unirsi alla natura che lo circonda e allo scorrere del tempo che ne determina la forma attuale. Si fa la sua storia e accoglie il suo stato decadente e ormai imperfetto. Persiste, forte e sicuro, incurante dell’abbandono. Più mi lasciano sola più splendo, diceva Alda Merini.

Ho scoperto questo posto grazie a derive suburbane, che conobbi quando mi trasferii a Napoli ormai un anno fa, quasi per caso. Stavo cercando informazioni su Villa Ebe, all’epoca vivevo lì vicino e trovai un loro racconto sulla visita della villa. Me ne innamorai.

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Martina Patone
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